25 APRILE: E’ FESTA (NONOSTANTE TUTTO)

25 aprile. Nonostante “Bella ciao” proibita, nonostante i processi quotidiani alla Resistenza, nonostante i livori e i rancori dei reazionari, nonostante il revisionismo e il negazionismo, nonostante le strade dedicate ai gerarchi, nonostante gli armadi della vergogna, nonostante le stragi impunite, nonostante i candidati che fanno il saluto romano, nonostante i libri di storia “da riscrivere”, nonostante le speculazioni sulle foibe, nonostante i raduni dei reduci repubblichini, nonostante la comprensione per i “ragazzi di Salò”, nonostante i tagli dei fondi all’ANPI e agli istituti per la storia della Resistenza, nonostante i corifei della memoria condivisa, nonostante le ronde padane, nonostante le croci celtiche, nonostante i piduisti in attività, nonostante Grillo e il “V day”, nonostante quelli che vogliono abolire il 25 aprile,oggi è festa.
E’ la gran festa d’aprile: la fine del mostro in camicia nera e bruna, la festa del coraggio di scegliere e di schierarsi, la festa di coloro che vinsero superando difficoltà quasi insormontabili, della ragione contro le tenebre del fanatismo e i suoi macabri riti di morte, della riappropriazione del nostro destino, del riscatto e della rinascita della nazione, l’alba della Costituzione democratica, il giorno delle piazze riconquistate alla politica e riempite dalle belle bandiere.
Oggi sappiamo che il percorso compiuto dal 1945 in poi (e ancor prima, con l’opposizione al regime fascista), non rappresenta un cammino rettilineo verso sempre maggiori conquiste sociali e nuovi diritti, ma un itinerario contrastato e irto di difficoltà, come del resto dimostrano molti momenti di questo sessantennio repubblicano. Mai come in questo momento dobbiamo essere consapevoli dei rischi di ritorno all’indietro, di un nuovo oscurantismo culturale, di una tremenda reazione contro le lavoratrici e i lavoratori e le loro organizzazioni, di rinnovati e più pesanti attacchi alla Costituzione, in un Parlamento privato, per la prima volta dal dopoguerra, della presenza dei comunisti e della sinistra. E tuttavia ci conforta, tra gli altri, un pensiero - un vantaggio, se vogliamo-rispetto alla generazione che sessanta anni fa riguadagnò la libertà al nostro paese. Essa era infatti una generazione senza maestri o che, per meglio dire, i propri maestri dovette cercarli, faticosamente e spesso pericolosamente, nei libri, in situazioni estemporanee, in qualche spazio sottratto all’onnipresente controllo della dittatura. Noi, antifascisti del presente, abbiamo come riferimento, accanto a tante speranze disattese, una storia che si è compiuta, conquiste che si sono oggettivate in istituti giuridici – primo fra tutti la Costituzione repubblicana- , figure esemplari che hanno testimoniato con le proprie biografie la possibilità di un ‘altra Italia. Uno di questi personaggi, tra gli eroi eponimi della lotta di liberazione, Sandro Pertini, era solito concludere i propri discorsi, anche da Presidente della Repubblica, con il motto “Ora e sempre Resistenza”. Ritengo che non sia retorico riproporlo oggi, in un mutato contesto storico-politico, ma mantenendone integri lo spirito e il messaggio etico-civile, nel quale sono riposti le nostre radici e il nostro futuro.


IL PARTITO
di Wladimir V. Majakovskij

Qui da noi le parole più profonde
diventano abitudine,
invecchiano come i vestiti,
ma io voglio costringere una grande parola
a splendere di nuovo, la parola Partito.
Un uomo solo, in se stesso racchiuso,
a che cosa può essere utile? Chi mai
gli darà ascolto? Forse la moglie,
e non sempre, non in piazza
ad esempio,
forse solo nell’intimità.
Il Partito è un uragano
denso di voci flebili e sottili
e alle sue raffiche
saltano i fortilizi del nemico,
come timpani al rombo del cannone.
La disgrazia è sull’uomo quando è solo.
La sciagura è nel cuore del solitario.
L’uomo solo è fragile preda
d’ogni potente
e persino dei deboli purché si mettano in due.
Ma se nel Partito
tutti i deboli si sono riuniti,
arrenditi, nemico, muori e giaci!
Il Partito è una mano
con milioni di dita,
stretta in un solo minaccioso pugno.
L’Uomo isolato non conta,
anche se è forte
non alzerà una semplice trave,
né tanto meno una casa a cinque piani.
Ma col Partito,
reggendoci e alzandoci l’un l’altro,
costruiremo sino al cielo.
Il Partito è la spina dorsale della classe operaia.
Il Partito è l’immortalità della nostra opera.
Il Partito è l’unica cosa che non tradisce.
Oggi sono un povero commesso,
ma domani
cancellerò i regni dalla carta.
Cervello e fatica,
vigore e gloria della classe:
ecco cos’è il Partito.
Il Partito e Lenin sono fratelli gemelli.
Chi vale di più di fronte alla storia?
Noi diciamo Lenin e intendiamo il Partito,
noi diciamo Partito e intendiamo Lenin

87° Anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia

COMUNISTI SIAMO COME NASCEMMO:

DEL PRESENTE E DEL FUTURO



LUNEDì 21 GENNAIO ore 17,00

Aula consiliare della provincia di Livorno - p.zza del municipio

Intervengono:

Mauro Lenzi – segreteria regionale PRC

Nino Frosini – segretario regionale PdCI

Fosco Giannini – senatore PRC e direttore della rivista “L’ERNESTO”

coordinano:

Renzo Cioni - capogruppo PdCI e Luciano Giannoni - consigliere PRC


  La Rivoluzione d’Ottobre, novant’anni dopo, mantiene tutta la sua forza propulsiva

Benché la Rivoluzione d’Ottobre sia stata un punto di svolta decisivo che ha segnato tutta la storia del 20° secolo, mi rendo conto quanto sia difficile oggi affrontare questo tema in modo razionale nel momento in cui i fautori della “Cosa rossa” stanno mettendo a punto i dettagli dell’ultimo passaggio liquidatorio che dovrebbe rompere definitivamente i ponti con il comunismo del ‘900.

Pare che nulla si salverà – nemmeno la falce e martello – da questa furia iconoclasta. Difendere la memoria e le ragioni del comunismo e dei comunisti – anche in quello che continuiamo a considerare territorio amico – è un po’ come proporre diete vegetariane ai cannibali della Nuova Guinea. Intendiamoci, non è mai stato facile in nessuna epoca mantenere integro e condiviso il filo conduttore della memoria storica. Anche dove sono stati costruiti mausolei le difficoltà non sono mai mancate anche nei momenti più alti della storia comunista. Ricordo di avere ben compreso l’emergere di questa difficoltà già mezzo secolo fa quando nel 1954 fui inviato a Mosca dalla FGCI di Berlinguer a seguire il 15° congresso del Komsomol.

 

I grandi cambiamenti geopolitici dopo il 1945

 

La seconda guerra mondiale era finita da poco nel modo che sappiamo e l’Unione Sovietica era una delle potenze vincitrici. Ed anche la nazione che aveva dato un contributo immenso di sacrifici, distruzioni e vite umane alla sconfitta del nazifascismo. Siccome è diventato di moda demonizzare tutta la storia sovietica, proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo alla Russia e al mondo se non ci fosse stata la Rivoluzione d’Ottobre e un grande partito comunista (bolscevico) che ha saputo trasformare a tempi di record, con un consenso popolare enorme, un paese contadino arretrato in una grande potenza industriale, alfabetizzata e socialista, che ha dato all’URSS le macchine, l’acciaio, il carbone, il petrolio necessari per vincere la sfida mortale contro la più micidiale macchina militare dell’epoca. Sappiamo che solo grazie a quel grande potenziale è stata conseguita una vittoria che poi ha prodotto profondi cambiamenti negli assetti geopolitici del pianeta. Dall’Elba al mar del Giappone, fino al Mar Cinese meridionale si stendeva un immenso territorio, lungo 10 fusi orari, liberato dalla presenza dei vecchi poteri imperialisti dominanti. A quell’epoca erano trascorsi meno di trentanni dalla rivoluzione d’Ottobre ma la sua forza propulsiva aveva già prodotto risultati enormi, sorprendenti.

Eppure, già in quel clima di travolgente avanzata delle idee socialiste cominciava ad apparire qualche problema a conferma che, anche nei momenti più alti, i processi di cambiamento rivoluzionari producono contraddizioni piccole e grandi e guai a non percepirne la portata.

 

E fu là, in quella sala del Cremlino, davanti a quella platea di giovani, molti dei quali avevano combattuto lungo i 3000 km., da Stalingrado a Berlino, che ascoltai per la prima e, forse, unica volta, porre dal segretario del Komsomol , Sceliepin, un preoccupante quesito, estraneo ai toni trionfalistici della nascente nomenclatura kruscioviana, che si apprestava a demolire il periodo staliniano come una parentesi di cronaca nera (il che avvenne in modo eclatante e assai poco convincente, due anni dopo, al XX congresso del PCUS). Ma siccome il segretario del Komsomol, Sceliepin, non sapeva cosa avesse in testa Krusciov, pose un problema di natura esattamente opposta: come riuscire a raccontare e trasmettere ai ragazzi sovietici di 10/12 anni, nati dopo la rivoluzione e appena sfiorati dalla tragedia della seconda guerra mondiale, l’idea che le conquiste socialiste non erano un regalo del cielo ma frutto delle dimensioni eroiche di una grande epopea durata trentanni costata fiumi di lacrime e sangue alle loro madri e ai loro padri.

La domanda era perciò: come riuscire a trapiantare nelle nuove generazioni l’impegno, il coraggio, la volontà e la fiducia nella possibilità di cambiare il mondo, cioè quegli ideali che avevano sorretto il popolo sovietico in una sfida temeraria.

 

Mi capita sovente di ripensare quel quesito e anche quando vedo tantissime bandiere rosse con la falce e il martello e la scritta “comunista”, come abbiamo visto sabato 20 ottobre a Roma mi domando quanti sanno o ricordano come, quando e perché quei simboli siano diventati “partito”, poi rivoluzione, ed abbiano cominciato ad impensierire sul serio la razza padrona di tutto il pianeta.

 

Luci, ombre e tragedie dell’esperienza sovietica.

 

Osservando a distanza i passaggi cruciali del novantennio sovietico e le contraddizioni interne ed esterne che hanno portato alla sconfitta il primo tentativo di società socialista, dobbiamo ammettere che qualcosa non ha funzionato. Lascio, ovviamente, a studiosi e intellettuali di ben altro spessore indagare criticamente i vari passaggi della storia dell’URSS e le ragioni che hanno portato al colpo di stato e alla controrivoluzione. Tuttavia. parafrasando Tiziano Terzani, continuo ad essere convinto che quell’esito non è stata la fine di un ciclo ma bensì il nuovo inizio di un lungo percorso che continua altrove in forme nuove e diverse. Ma resta pur sempre nell’alveo tracciato dalla Rivoluzione d’Ottobre e produce nuove esperienze e altri modelli di transizione con cui tutti i comunisti possono e devono confrontarsi senza pregiudizi.

 

Abbiamo sentito ripetere fino alla noia, in questi ultimi anni che il comunismo del 20° secolo, affermatosi nel 1917 a Pietrogrado, e poi proliferato ovunque fino ad assumere dimensioni planetarie con la terza Internazionale, è stato un colossale fallimento in tutte le sue molteplici espressioni: politiche, economiche, sociali e ideologiche. I termini “crollo” o “collasso” di quel sistema sono diventate le parole centrali del bombardamento mediatico seguito al crollo del muro di Berlino. Termini che, senza sottintesi, suggerivano l’idea che il comunismo, travolto da un implosione spontanea era ormai morto e seppellito sotto il peso delle sue “colpe”, dei suoi “orrori” e delle sue “infamie”. Quali stravolgimenti abbia compiuto il revisionismo a sostegno di quelle tesi lo sappiamo. Ma, purtroppo, come ha detto Jean Cocteau “la storia sono fatti che finiscono per diventare leggende; le leggende sono bugie che finiscono per diventare storia”.

 

Il più lapidario epitaffio di questa morte presunta del comunismo è stato il titolo coniato per il best seller di Francis Fukujama: “Fine della storia”, nelle cui pagine traspare il trionfalismo per avere finalmente risolta la storica contesa tra imperialismo e socialismo aperta 75 anni prima dai cannoni dell’incrociatore Aurora contro il Palazzo d’Inverno, e considera i regimi al potere in Cina, Vietnam e Cuba cascami residuali di un sistema in fase di estinzione, in procinto di approdare nel capitalismo. Da allora il neoliberismo è proclamato, in un clima di dilagante euforia, vincitore e titolare del solo modello economico politico e ideologico in grado di gestire il pianeta per l’eternità. Da Wall Street a piazza Affari, è cominciata la corsa all’oro della “new economy” globalizzata. Guerra e terrorismo di Stato sono ridiventati i cavalli di battaglia della superpotenza americana e dei loro alleati europei. Nell’Europa dell’est e dell’ovest si è aperta in contemporanea la stagione delle cosiddette “riforme” destinate a seppellire, insieme al ricordo della ex Unione Sovietica, le conquiste sociali, costate lacrime e sangue al mondo del lavoro, e con esse gli ideali e le speranze di trasformazione che per più di un secolo hanno alimentato le grandi battaglie politiche e sociali del movimento operaio in Occidente. Insomma, una vera e propria palingenesi tra il “vecchio” sistema sociale, che considera estinti anche i correttivi keynesiani, e il neoliberismo che si afferma e comanda il mondo. Quanto basta per disperarsi e andarsene a casa (come in molti, ahime!, hanno fatto), oppure cambiare casacca e riciclarsi.

 

Attenzione però! Spesso accade che la vittoria di uno di questi due elementi dialettici – il vecchio e il nuovo – si volga prima o poi a beneficio del suo opposto. E’ quella che gli accademici chiamano eterogenesi dei fini, cioè che certi eventi possono evolvere per fini diversi da quelli che persegue chi li compie. Per fortuna la storia, nella sua ricorrente imprevedibilità ha già fatto altre volte di questi scherzi.

 

Alzando lo sguardo oltre il nostro campo visivo eurocentrico e osservando le dinamiche di quello che sta succedendo oggi in Asia, America Latina e nella stessa Africa direi che chi continua a sostenere che il comunismo è morto più che ribadire un fatto reale compie un rito di inutile esorcismo. Un carissimo compagno indiano ricordandomi l’attuale vitalità dei comunisti nel continente in cui opera, e strizzandomi l’occhio, mi confessa che comincia a prendere sul serio il dogma induista della reincarnazione.

 

2007: I partiti comunisti forza motrice della lotta antimperialista

 

Ancorché dati per morti e seppelliti sono un centinaio i partiti comunisti che attualmente operano nel mondo, con circa 80 milioni di aderenti. Pur nella loro diversità e autonomia, operano per ricostruire anche una dimensione internazionale del movimento. Le prime tappe di questo percorso sono state compiute ad Atene e Lisbona e, nei prossimi giorni , a Minsk dove sarà solennemente ricordato il 90° anniversario dell’Ottobre. Il nostro sito – Resistenze - spende energie e competenze ogni settimana nel tradurre interventi e articoli di giornali da tutto il mondo che documentano questa comune volontà di rinascita dei partiti comunisti.

 

Ricostruire una qualsiasi forma di coordinamento internazionale dei comunisti sarà, ovviamente, un lavoro complesso di ricerca e sperimentazione e occorrerà del tempo prima che i risultati siano percepibili e diventino elemento propulsore di nuovi processi rivoluzionari. Ma un primo grande risultato è già stato ottenuto dopo che decine di partiti, tra cui i più forti ed importanti, hanno deciso di consacrare le loro energie alla formazione di un ampio schieramento antimperialista mondiale che comprenda, oltre ai comunisti, altri partiti, movimenti ed entità statuali che, in forme e con mezzi diversi, si oppongono al dominio unipolare della superpotenza.

Insomma, ci sono molti elementi per passare dalla fase del “pessimismo dell’intelligenza” a quello dell’”ottimismo della volontà”.

 

Ripartendo da questa forte presenza dei partiti comunisti nel mondo, vale dunque la pena di azzardare un grossolano bilancio e di provare ad individuare quali sono oggi le tendenze economiche, politiche e militari che stanno cambiando, ancora una volta, i rapporti tra le classi e gli assetti geopolitici del pianeta.

 

La “Grande scacchiera” traccia i nuovi confini dell’imperialismo americano

 

Dal dissolvimento dell’URSS sono trascorsi più di tre lustri. Il tempo di un sospiro dal punto di vista storico, ma sufficiente per verificare fino a che punto la strategia dei centri di comando imperialisti per assumere il controllo globale del pianeta abbia funzionato. Gli obbiettivi di questa strategia erano stati squadernati a suo tempo da quello che all’epoca (ora un po meno) era considerato il manuale scientifico dell’imperialismo: “La grande scacchiera”, di Z. Brzezinski. Manuale che, con arrogante lucidità esplicitava apertamente gli obbiettivi raggiungibili dalla superpotenza dopo la scomparsa del suo più temibile competitore.

 

La sequenza degli avvenimenti successivi conferma che quel manuale non era un libro di propaganda ma una Bibbia vera e propria del “nuovo secolo americano” che ha ispirato le proiezioni strategiche della Casa Bianca ormai convinta di essere diventata il soggetto centrale del comando planetario in quanto titolare di un unico e onnipotente apparato militare in grado di sostenere la penetrazione politica, economica e finanziaria in ogni angolo del pianeta.

Considerata ormai conclusa la colonizzazione politica ed economica della Russia di Boris Eltsin, tre erano gli obbiettivi principali posti in essere fin dai tempi di Bill Clinton.

 

La conquista con la forza, o con la corruzione dollarizzata dei poteri locali, delle fonti energetiche di tutta l’Asia centrale ex sovietica, con lo sguardo mirato ai futuri crocevia strategici, Iran e Afganistan. E’ bene ricordare che ben quattro guerre sono state condotte a questo fine.

 

Secondo obbiettivo – un po più sfumato nel tempo – tenere sotto minaccia di intervento armato, anche nucleare, i paesi reticenti a sottomettersi al nuovo ordine. Per evitare distinzioni buonistiche tra repubblicani e democratici americani, ricordiamo che la prima lista degli “stati canaglia” è stata messa a punto negli anni della presidenza Clinton. Ed è stato lo stesso Clinton dichiarare , alla vigilia dell’aggressione contro la Jugoslavia, che gli Stati Uniti erano in grado di sostenere e di vincere tre guerre regionali in contemporanea.

 

Terzo obbiettivo, preparare l’America ad affrontare in un futuro imprecisato, ma inevitabile, lo scontro con i paesi considerati nemici strategici e antagonisti globali della sua egemonia planetaria. Cina e Russia in primis.

 

Questo 90° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre è l’occasione per tirare qualche somma, cominciando col chiederci se il gendarme del “nuovo ordine”, antagonista storico delle rivoluzioni socialiste e antimperialiste, stia diventando più forte o siano invece percepibili i segni di un suo declino.

 

Inizia il declino della potenza americana

 

Dal punto di vista militare l’America sembra avere raggiunto l’apice della sua potenza. I segni più vistosi sono le dimensioni mondiali assunte dalla Nato con l’inclusine di Australia, Giappone e Corea del Sud che completa l’accerchiamento del continente “nemico”, l’Eurasia. E poi lo “scudo stellare” piazzato in modo provocatorio ai confini della Russia. E tuttavia, dopo essere affondato nel pantano iracheno e sebbene sia in grado di distruggere il mondo intero decina di volte, il Pentagono si trova in difficoltà ad usare la forza persino quando – ad esempio – Chavez sfratta la sua squadra navale dalla base di Maracaibo. Ricordando cosa è successo al Cile di Allende, al Guatemala di Arbenz, al Panama di Noriega, a Grenada e a tutti coloro che hanno osato sfidare la Casa Bianca, è inevitabile domandarsi: Che succede? Come mai questa sfasatura tra le continue minacce di bruciare vivi i suoi nemici e l’esitazione di usare un solo fiammifero?

 

La tesi sostenuta da molti da autorevoli studiosi,quasi tutti di scuola “liberal”, è in grossolana sintesi la seguente: pur avendo proclamato che i loro veri antagonisti, nonché probabili nemici di future guerre nucleari, sono i grandi paesi emergenti come la Cina, La Russia e l’India, gli Stati Uniti si limitano a mostrare i denti a micropotenze come l’Iran, la Siria, La Corea del Nord, lo Zimbabwe o la Bielorussia.

 

Tutto ciò dimostra che i nuovi rapporti di forza consentono all’America di fare la voce grossa unicamente con dei nani militari. E per restare al centro del mondo non può che scegliersi degli avversari insignificanti.

 

Ma la vera natura del declino imperiale è soprattutto un’altra. La superpotenza americana sta perdendo il primato della sua egemonia economica, industriale e finanziaria. I segni di questo declino erano già evidenti molto prima del crollo dei mutui che ha provocato sulle Borse mondiali una tempesta paragonabile, se non peggiore, a quella dell’11 settembre. Trentanni fa gli Stati Uniti producevano il quaranta per cento del PIL mondiale. Oggi producono solo il dieci per cento delle merci circolanti nel pianeta, cioè meno della Germania, ma ne consumano più del trenta per cento , ossia più dell’Europa intera. Se i paesi creditori (Cina inanzitutto) chiedessero alla Federal Reserve il rimborso immediato dei titoli emessi da Washington per coprire il suo debito estero l’ impero sarebbe al collasso. E forse è questa l’arma di distruzione di massa che provoca qualche incubo alla Casa Bianca.

 

Cresce nel mondo la resistenza antimperialista

 

Credo ormai che il nome e il tonnellaggio dei paesi che con il loro potenziale di risorse energetiche, industriali, scientifiche e militari stanno cambiando, ancora una volta, i rapporti di forza su scala mondiale siano ormai noti a tutti e si chiamano Cina, Russia, India. Rappresentano un terzo della popolazione del pianeta e stanno diventando l’epicentro produttivo del PIL mondiale. Ma sono anche, nella fase storica attuale, il maggiore contrappeso che contrasta il dominio globale dell’imperialismo americano. Senza indugiare sulla qualità e la diversità, più che evidente, dei regimi politici delle nuove potenze emergenti non possiamo non rilevare, leninianamente, che la loro entità complessiva, politica, economica e militare, rappresenta oggi il fattore oggettivo più importante del declino della superpotenza, nonché un importante fattore di sostegno dei movimenti di liberazione che in America Latina, Africa e Asia si sottraggono, anno dopo anno, alla tutela imperialista.

 

La Russia rientra nella politica internazionale come grande potenza.

 

Un decisivo punto di svolta di quello che sembrava essere per l’eternità il “nuovo secolo americano” sono anche i repentini cambiamenti di indirizzo economico e militare della Russia contemporanea. Ma è sopratutto la sua politica estera che sta riconquistando giorno dopo giorno una nuova parità strategica col gigante americano. Nessuna delle più aggressive provocazioni della Casa Bianca rimane senza risposta. Il giorno dopo che Bush ha agitato lo spettro di una terza guerra mondiale la risposta di Putin è arrivata puntuale e pesante come un colpo di clava. Sembra proprio che a fissare le regole del gioco internazionale sia ora la Russia dopo essere diventata in questi ultimi anni un “global player”, una superpotenza globale.

 

Per capire la portata dei cambiamenti che provoca questa presenza della Russia in campo internazionale, basta ripensare un attimo ai torbidi anni della controrivoluzione eltsiniana degli anni novanta. Anni di regresso terribili, costati lacrime e sangue al popolo russo, diventato preda di una famelica oligarchia, sprofondato nel sottosviluppo, ridotto al rango di mendicante vassallo dell’America, governato da un alcolista barcollante come Boris Eltsin. Lapidario e umiliante il giudizio espresso da Clinton: “meglio lui ubriaco alla testa della Russia che qualunque sua alternativa sobria”. Alternativa che per fortuna è arrivata. E così, benché Putin non sia il nuovo Lenin, e lo scontro di classe in Russia tra capitale e lavoro sia del tutto aperto e costituisca la priorità politica su cui sono giustamente impegnati i comunisti russi, il Cremlino, ben sapendo quanto sia profonda e radicata nel popolo russo la memoria e l’orgoglio delle gigantesche trasformazioni compiute dall’URSS nei novantanni della sua storia, non può esimersi dal ricostruire il filo conduttore con l’epoca sovietica e, anziché criminalizzarla, sponsorizza la riscrittura del nuovo manuale didattico – Storia contemporanea della Russia, 1945-2006 – nel quale si legge che l’Unione Sovietica è stata fin dalla sua fondazione “un esempio di società migliore, giusta, per milioni e milioni di persone in tutto il mondo”.

 

Non è molto, beninteso, ma lascia immaginare che proprio da quella storia nascono gli input della politica putiniana che, sorretta da una forte ripresa economica e da un potenziale militare di tutto rispetto e in piena sintonia con il gigante Cina, fa della sua politica estera uno dei pilastri del multiforme schieramento antimperialista.

 

 


 "Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza"  - "L'unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere" - "Ho tanti fratelli che non riesco a contarli e una sorella bellissima che si chiama libertà." -
Ernesto Che Guevara (Rosario, 14 giugno 1928 – La Higuera, 9 ottobre 1967)

Quarant' anni fa uccidevano il "Che"

Noi lo ricordiamo con le sue parole

Lasciatemi dire, a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d'amore.

Le rivoluzioni non si esportano, ma nascono in seno al popolo.

Non sono un Libertador. I Libertadores non esistono. Sono i popoli che si liberano da sé.

Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi.

Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro uomo.

Per non lottare ci saranno sempre moltissimi pretesti in ogni circostanza, ma mai in ogni circostanza e in ogni epoca si potrà avere la libertà senza la lotta!

Se io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò vivendo in te.

Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque, in qualunque parte del mondo.

Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere.

Siamo realisti, esigiamo l'impossibile...
Ernesto Che Guevara